di Adriano Panatta Editore: Sperling & Kupfer Prezzo Cartaceo: € 17,90 Pagine: 300
Tutto comincia nel 1968, l'anno in cui, insieme a tanti importanti cambiamenti, nasce il tennis Open, aperto a dilettanti e professionisti: d'ora in poi ogni gara sarà una sfida fra i giocatori più forti. Adriano Panatta è solo un diciottenne che si fa strada nei tornei juniores, ma a Wimbledon disputa «uno splendido match, perdendo in semifinale contro l'australiano John Alexander», come scrive Gianni Clerici nella cronaca del 5 luglio. E l'anno dopo assiste alla vittoria di Rod Laver, che conquista il primo Grande Slam dell'era Open. Con questi ricordi si apre il racconto di Panatta, una storia lunga cinquant'anni dove si intrecciano le sfide leggendarie, le sconfitte brucianti, i colpi impossibili, i segreti e le bizzarie dei campioni, che sono avversari e amici, i mille aneddoti raccolti dentro e fuori dal campo.
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Un libro che è sopra ogni altra cosa, un inno all’amore per il tennis. Non è affatto una comune autobiografia, bensì un racconto dettagliato dei più grandi tennisti che hanno fatto la storia. Mi è piaciuta in particolare, la parte inerente alle tenniste donne che hanno raggiunto un traguardo fondamentale: La guerra delle Houston’s Nine, lo strappo che spinse le tenniste più importanti a lasciare il circuito comune (allora era cosi), prese forma dalla ribellione di nove giocatrici decise a far fruttare il loro mestiere di sportive. Ne avevano più di un motivo. Il nuovo circuito professionistico nato dalle battaglie del 1968 non aveva individuato un ruolo preciso per le competizioni femminili, relegate a fare da contorno ai match degli uomini. C’era un problema di visibilità, e soprattutto un problema di soldi: quel primo professionismo dava da vivere ai tennisti, non a Bilie Jean e alle sue amiche. Fu lei a stimolare l’azione, audacissima, dell’’editrice Gladys Heldman, a capo della rivista World Tennis Magazine, fondata nel 1953. Da quel binomio fra Billie e Gladys, fondato sulla ricerca di nuove strade e cementato dall’amicizia, cosi come dal boicottaggio di Wimbledon cui aderimmo di getto a difesa di Nikki Pilić e delle nostre prerogative di tennisti professionisti, e che fu il primo banco di prova per l’ATP (a un passo dal consegnare alla storia la prima classifica redatta da un computer ), prese forma il nuovo tennis, quello che conosciamo oggi. Toccante, la parte inerente a ciò che il grande campione pensa dei nuovi talenti. Coloro che sono nati in questi anni, così complessi e dalle mille sfaccettature: Il balzo generazionale indubbiamente ha il suo peso, e non e solo una questione di età. Con i Next Gen – li chiamano cosi, sta per ≪la prossima generazione≫ – sono entrati definitivamente in scena i figli di internet, i ragazzi con il pollice snodabile già nel corredo genetico. Pensano, parlano, agiscono tramite schermo, e tramite quello si fanno pure un’idea della vita e del mondo.
Sono professionalmente già strutturati, ma non affrontano lo sport come una ricerca quotidiana di se stessi, non c’e curiosità nel conoscere gli avversari, inquadrarli, scoprirli, farsene un’idea positiva o negativa. Fanno un mestiere, li devono affrontare, ci giocano e tanto basta. Se proprio deve scattare un’amicizia, essa prenderà forma cinguettando, attraverso quello che si scriveranno nel poco spazio concesso da Twitter. Ma non succederà attraverso il tennis, da come giocano, da cosa portano in campo, guardandosi negli occhi. Eppure sono nati per il tennis. Hanno i fisici giusti, costruiti esattamente per lo scopo cui devono servire. Un’analisi oculata e molto chiara di cos’è stato il tennis, e cosa diventerà nel futuro.
Durata totale della lettura: Cinque giorni
Bevanda consigliata: Cioccolata calda bianca
Formato consigliato: Ebook
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